Non so perchè: saranno le prime spire dell'afa o forse l'incombere della città che non manifesta nulla più di un cielo già scomposto dai vapori. Ma ho voglia improvvisa di mare a spruzzi e anche di lunga, stupefatta contemplazione del sommuoversi verde e turchino che respira a piena acqua, par rigonfiarsi per dilagare chissà fin dove, poi s'arriccia di spume frenate e sciaborda per lucentezze.
So di non vedere un mare da molti anni, e vorrei correrlo sul molle delle rive, dove l'orma s'imprime e ricolma. Quell'immensità di brezze contiene i miei anni fanciulli. Ero un ragazzo con costume rosso e blu, la cintura di tela bianca, l'acqua negli orecchi che bisognava fugare ponendo un ciottolo sul padiglione e poi battendolo forte: toc, toc, risonava l'udito a martello. L'acqua sortiva in un rivolo di tepore, il sasso si bagnava.
Abitavamo, coi miei, una pensione ligure sotto il bersò d'uva verde. E c'era la linea ferrata a correre appena più in là, fra la spiaggia di dieci ombrelloni, infissi nella sabbia calda, e il primo verdeggiare della collina dopo i ciuffi delle canne. Gli scogli erano caldi di luce, e si poteva mirare -da lassù- l'ingresso di una vela molto bianca nell'arco immenso del paesaggio: l'esiguo vascello vibrava nel ripetersi della brezza, talora inclinava e noi si salutava a braccia, felici dell'apparizione, sempre sognanti. Dalla vela rispondevano, figurine nere contro il bagliore. I gabbiani urgevano tersi.
Un mattino che forse era luglio, mio padre m'insegnò a nuotare e ricordo il suo ridere giovane. Era forte e sciolto nei movimenti marini, mi piaceva sentirgli i muscoli che aveva evidenti e armonici. Avvertivo il profondo piacere, la garanzia affettuosa della sua presenza davanti al trasalire continuo e talora eccitato del mare.
Io dovevo stendermi in acqua fiducioso, lui mi reggeva per la vita con l'arco rassicurante del braccio e la sua voce mi riviene col suono antico di quel rimestarsi d'onde: <Così, va bene così>, il ventaglio delle piccole braccia che osano aprirsi nel mare e le gambe che ripetono l'identico muoversi, il prodigio inaudito del galleggiare e procedere mentre un gioco d'acqua sormonta la bocca, impaurisce e lui ancora precetta. <Non temere, l'uomo può farcela, l'uomo ce la fa>.
Risalgo estenuato, guadagno il cerchio d'ombra dov'è mia madre coi capelli raccolti: ho nuotato, lo potrò sempre rifare, il sole è così affabile, gli anni si ripeteranno.
Che fosse quella la felicità?
Giorgio Torelli