Sono in piedi sul bordo della spiaggia, un veliero passa nella brezza del mattino, e parte verso l’Oceano.
È un oggetto di bellezza, e io lo guardo finchè scompare all’orizzonte.
Qualcuno, al mio fianco, dice: “è partito”. Partito? Per dove? Partito dal mio sguardo, tutto qui. Il suo albero è sempre altrettanto alto; lo scafo ha sempre la forza di portare il suo carico umano fino alla destinazione finale.
La scomparsa totale dalla mia vista è in me, non in lui.
E proprio nel momento in cui qualcuno accanto a me dice: “è partito” altri lo guardano spuntare all’orizzonte, e venire verso di loro, e con una sola voce esclamano con gioia: “eccolo!”
Questo è la morte.
La morte non è nulla.
Sono soltanto passato nella stanza accanto.
Io sono io, voi siete voi. Ciò che eravamo gli uni per gli altri, lo siamo sempre. Datemi il nome che mi avete sempre dato. Parlatemi come l’avete sempre fatto. Non usate un tono diverso, non prendete un’aria solenne e triste. Continuate a ridere di ciò che ci faceva ridere insieme. Pregate. Sorridete. Pensate a me. Pregate per me. Il mio nome sia pronunciato come sempre, senza alcuna enfasi, senza traccia d’ombra.
La vita significa quel che ha sempre significato. È quella che è stata sempre. Il filo non è tagliato.
Perché dovrei essere fuori dal vostro pensiero, semplicemente perché sono fuori dalla vostra vista?
Io vi aspetto, non sono lontano, solo dall’altro lato della strada.
Vedete, tutto è bene.
venerdì 30 dicembre 2011
mercoledì 9 marzo 2011
Vivere senza...
Vivere senza...
la gioia nel cuore, che irradia da un sorriso
che viene dell'anima, l'allegria dei cori
cantati in compagnia, dei fiumi di parole e di
risate per una battuta di un amico, di albe
e tramonti, dell'odore dell'erba, dei colori
dei fiori, della frescura dei rami, dell'onda
del mare solcato tante volte con lo sguardo
che si perdeva lontano, non ci farà mai
dimenticare te, Enzo. Tu sapevi apprezzare
della vita ogni risvolto e ci hai trasmesso
per sempre la capacità di riempire la nostra
parte più profonda con tutte le più belle cose
della vita, per renderla meno amara, per
continuare a vivere insieme, in un tempo
eterno, infiniti e sereni esaltanti momenti. PP
lunedì 7 febbraio 2011
L'uomo può farcela
Non so perchè: saranno le prime spire dell'afa o forse l'incombere della città che non manifesta nulla più di un cielo già scomposto dai vapori. Ma ho voglia improvvisa di mare a spruzzi e anche di lunga, stupefatta contemplazione del sommuoversi verde e turchino che respira a piena acqua, par rigonfiarsi per dilagare chissà fin dove, poi s'arriccia di spume frenate e sciaborda per lucentezze.
So di non vedere un mare da molti anni, e vorrei correrlo sul molle delle rive, dove l'orma s'imprime e ricolma. Quell'immensità di brezze contiene i miei anni fanciulli. Ero un ragazzo con costume rosso e blu, la cintura di tela bianca, l'acqua negli orecchi che bisognava fugare ponendo un ciottolo sul padiglione e poi battendolo forte: toc, toc, risonava l'udito a martello. L'acqua sortiva in un rivolo di tepore, il sasso si bagnava.
Abitavamo, coi miei, una pensione ligure sotto il bersò d'uva verde. E c'era la linea ferrata a correre appena più in là, fra la spiaggia di dieci ombrelloni, infissi nella sabbia calda, e il primo verdeggiare della collina dopo i ciuffi delle canne. Gli scogli erano caldi di luce, e si poteva mirare -da lassù- l'ingresso di una vela molto bianca nell'arco immenso del paesaggio: l'esiguo vascello vibrava nel ripetersi della brezza, talora inclinava e noi si salutava a braccia, felici dell'apparizione, sempre sognanti. Dalla vela rispondevano, figurine nere contro il bagliore. I gabbiani urgevano tersi.
Un mattino che forse era luglio, mio padre m'insegnò a nuotare e ricordo il suo ridere giovane. Era forte e sciolto nei movimenti marini, mi piaceva sentirgli i muscoli che aveva evidenti e armonici. Avvertivo il profondo piacere, la garanzia affettuosa della sua presenza davanti al trasalire continuo e talora eccitato del mare.
Io dovevo stendermi in acqua fiducioso, lui mi reggeva per la vita con l'arco rassicurante del braccio e la sua voce mi riviene col suono antico di quel rimestarsi d'onde: <Così, va bene così>, il ventaglio delle piccole braccia che osano aprirsi nel mare e le gambe che ripetono l'identico muoversi, il prodigio inaudito del galleggiare e procedere mentre un gioco d'acqua sormonta la bocca, impaurisce e lui ancora precetta. <Non temere, l'uomo può farcela, l'uomo ce la fa>.
Risalgo estenuato, guadagno il cerchio d'ombra dov'è mia madre coi capelli raccolti: ho nuotato, lo potrò sempre rifare, il sole è così affabile, gli anni si ripeteranno.
Che fosse quella la felicità?
Giorgio Torelli
So di non vedere un mare da molti anni, e vorrei correrlo sul molle delle rive, dove l'orma s'imprime e ricolma. Quell'immensità di brezze contiene i miei anni fanciulli. Ero un ragazzo con costume rosso e blu, la cintura di tela bianca, l'acqua negli orecchi che bisognava fugare ponendo un ciottolo sul padiglione e poi battendolo forte: toc, toc, risonava l'udito a martello. L'acqua sortiva in un rivolo di tepore, il sasso si bagnava.
Abitavamo, coi miei, una pensione ligure sotto il bersò d'uva verde. E c'era la linea ferrata a correre appena più in là, fra la spiaggia di dieci ombrelloni, infissi nella sabbia calda, e il primo verdeggiare della collina dopo i ciuffi delle canne. Gli scogli erano caldi di luce, e si poteva mirare -da lassù- l'ingresso di una vela molto bianca nell'arco immenso del paesaggio: l'esiguo vascello vibrava nel ripetersi della brezza, talora inclinava e noi si salutava a braccia, felici dell'apparizione, sempre sognanti. Dalla vela rispondevano, figurine nere contro il bagliore. I gabbiani urgevano tersi.
Un mattino che forse era luglio, mio padre m'insegnò a nuotare e ricordo il suo ridere giovane. Era forte e sciolto nei movimenti marini, mi piaceva sentirgli i muscoli che aveva evidenti e armonici. Avvertivo il profondo piacere, la garanzia affettuosa della sua presenza davanti al trasalire continuo e talora eccitato del mare.
Io dovevo stendermi in acqua fiducioso, lui mi reggeva per la vita con l'arco rassicurante del braccio e la sua voce mi riviene col suono antico di quel rimestarsi d'onde: <Così, va bene così>, il ventaglio delle piccole braccia che osano aprirsi nel mare e le gambe che ripetono l'identico muoversi, il prodigio inaudito del galleggiare e procedere mentre un gioco d'acqua sormonta la bocca, impaurisce e lui ancora precetta. <Non temere, l'uomo può farcela, l'uomo ce la fa>.
Risalgo estenuato, guadagno il cerchio d'ombra dov'è mia madre coi capelli raccolti: ho nuotato, lo potrò sempre rifare, il sole è così affabile, gli anni si ripeteranno.
Che fosse quella la felicità?
Giorgio Torelli
Ethel aveva chiesto a Henry di raderle completamente la testa con la macchinetta, e lui l'aveva fatto, se pure di controvoglia. Era stato quello il primo dei molti momenti intimi che avrebbero condiviso. Un lungo anno sabbatico per occuparsi di lei, giorno dopo giorno: faceva parte della meccanica del morire. E Henry aveva fatto tutto quello che poteva. Ma la decisione di prendersi cura di lei fino alla fine era stata un po' come pilotare un aereo contro una montagna il più delicatamente possibile: il disastro è imminente; l'importante è come passi il tempo mentre aspetti lo schianto.
Jamie Ford
"Il gusto proibito dello zenzero"
Jamie Ford
"Il gusto proibito dello zenzero"
sabato 29 gennaio 2011
Parlar de Lussin
Sufia la bora e me torna alla mente
la nona e la zia sentade in giardin
mi picola ascolto e lore xe intente
al suo passatempo: parlar de Lussin.
- Ma chi quelo iera che stava in Calvario
in quela casa con la balatora…
Mi credo che el iera dei ani del Mario…-
- Ma no, assai più vecio de la Fedora!-
- El iera sposado con una de Prico
parente de quei che stava in Bozaz
del Antonio el fradelo ghe iera un amico…-
- Ma no, quelo iera de quei de Clanaz
che dopo el xe diventado assai ricco,
de picolo invece el magnava s’ciulàz…!
Parole rubade dal vento che sufia
memorie de un tempo che ormai no xe più
nel mar de la vita le barche se scufia
e le vece vele no torna più su…
domenica 16 gennaio 2011
Ho sceso dandoti il braccio
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
erano le tue
Eugenio Montale
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