lunedì 7 febbraio 2011

L'uomo può farcela

Non so perchè: saranno le prime spire dell'afa o forse l'incombere della città che non manifesta nulla più di un cielo già scomposto dai vapori. Ma ho voglia improvvisa di mare a spruzzi e anche di lunga, stupefatta contemplazione del sommuoversi verde e turchino che respira a piena acqua, par rigonfiarsi per dilagare chissà fin dove, poi s'arriccia di spume frenate e sciaborda per lucentezze.
So di non vedere un mare da molti anni, e vorrei correrlo sul molle delle rive, dove l'orma s'imprime e ricolma. Quell'immensità di brezze contiene i miei anni fanciulli. Ero un ragazzo con costume rosso e blu, la cintura di tela bianca, l'acqua negli orecchi che bisognava fugare ponendo un ciottolo sul padiglione e poi battendolo forte: toc, toc, risonava l'udito a martello. L'acqua sortiva in un rivolo di tepore, il sasso si bagnava.
Abitavamo, coi miei, una pensione ligure sotto il bersò d'uva verde. E c'era la linea ferrata a correre appena più in là, fra la spiaggia di dieci ombrelloni, infissi nella sabbia calda, e il primo verdeggiare della collina dopo i ciuffi delle canne. Gli scogli erano caldi di luce, e si poteva mirare -da lassù- l'ingresso di una vela molto bianca nell'arco immenso del paesaggio: l'esiguo vascello vibrava nel ripetersi della brezza, talora inclinava e noi si salutava a braccia, felici dell'apparizione, sempre sognanti. Dalla vela rispondevano, figurine nere contro il bagliore. I gabbiani urgevano tersi.
Un mattino che forse era luglio, mio padre m'insegnò a nuotare e ricordo il suo ridere giovane. Era forte e sciolto nei movimenti marini, mi piaceva sentirgli i muscoli che aveva evidenti e armonici. Avvertivo il profondo piacere, la garanzia affettuosa della sua presenza davanti al trasalire continuo e talora eccitato del mare.
Io dovevo stendermi in acqua fiducioso, lui mi reggeva per la vita con l'arco rassicurante del braccio e la sua voce mi riviene col suono antico di quel rimestarsi d'onde: <Così, va bene così>, il ventaglio delle piccole braccia che osano aprirsi nel mare e le gambe che ripetono l'identico muoversi, il prodigio inaudito del galleggiare e procedere mentre un gioco d'acqua sormonta la bocca, impaurisce e lui ancora precetta. <Non temere, l'uomo può farcela, l'uomo ce la fa>.
Risalgo estenuato, guadagno il cerchio d'ombra dov'è mia madre coi capelli raccolti: ho nuotato, lo potrò sempre rifare, il sole è così affabile, gli anni si ripeteranno.
Che fosse quella la felicità?
Giorgio Torelli

Ethel aveva chiesto a Henry di raderle completamente la testa con la macchinetta, e lui l'aveva fatto, se pure di controvoglia. Era stato quello il primo dei molti momenti intimi che avrebbero condiviso. Un lungo anno sabbatico per occuparsi di lei, giorno dopo giorno: faceva parte della meccanica del morire. E Henry aveva fatto tutto quello che poteva. Ma la decisione di prendersi cura di lei fino alla fine era stata un po' come pilotare un aereo contro una montagna il più delicatamente possibile: il disastro è imminente; l'importante è come passi il tempo mentre aspetti lo schianto.

Jamie Ford

"Il gusto proibito dello zenzero"